Analizzare se la moda sostenibile sia una realtà è cosa complicata e contraddittoria.
E’ vero che ci sono più iniziative, campagne e prodotti sostenibili rispetto al passato, il che suggerisce un crescente impegno nella giusta direzione, purtroppo però il grado e l’entità delle “azioni” dietro la facciata sono estremamente variabili e insufficienti.
La buona notizia è che molte persone hanno davvero preso coscienza della necessità di consumare in modo più sostenibile per preservare le risorse del pianeta. Tuttavia, secondo i risultati, pochi fruitori traducono le loro preoccupazioni in cambiamenti significativi nei loro consumi. Esiste un contrasto tra la sincera consapevolezza e la ferma adozione di nuovi comportamenti. I risultati evidenziano un atteggiamento critico nei confronti dei brand considerati irresponsabili, senza però alcun bonus assegnato ai brand impegnati.
Nonostante la consapevolezza degli effetti dannosi della “fast fashion” sull’ambiente, sui lavoratori e sui consumatori, perché continuiamo ad acquistare e sostenere questo settore?
C’è urgente necessità di una comprensione più approfondita delle ragioni e dei processi alla base dei diversi comportamenti dei consumatori.
Studi indicano che gli individui con una maggiore conoscenza delle attuali questioni ambientali tendono a essere più consapevoli degli impatti delle proprie azioni e comportamenti. Ma si perseguono stili di vita sostenibili non solo per coscienza ecologica, ma anche per la soddisfazione dell’acquisto.
La scelta d’acquisto di moda sostenibile è ostacolata sia dalla necessità di esprimere una certa identità sociale che dall’assenza di opzioni di abbigliamento convenienti e sostenibili insieme. Infatti la moda veloce o fast fashion è più facilmente disponibile ed economica.
Il consumo (in) sostenibile della moda.
C’era un tempo in cui la moda era scandita da quattro stagioni, oggi da circa 52 micro-stagioni, ma perché?
Le stagioni della moda potrebbero essere considerate come il ciclo commerciale del settore; in quest’ottica l’obiettivo delle case di moda multinazionali e in particolare del fast fashion è quello di produrre più velocemente, più frequentemente e con una varietà crescente, in modo da incentivare sempre più acquisti.
I nuovi modelli di business hanno tradizionalmente fatto affidamento proprio sul “consumismo” e lo hanno attivamente promosso, accelerando i flussi di risorse con impatti negativi difficili da bilanciare, nonostante gli sforzi per migliorare la produzione, la logistica o la fine del ciclo di vita.
Le aziende del fast fashion perseguono una strategia chiamata “obsolescenza programmata”, cioè invecchiamento programmato. In pratica significa progettare indumenti che in tempi brevi diventino fuori moda, si consumino, perdano forma o si rompano facilmente, per costringere i consumatori ad acquistare di nuovo. Abbiamo imparato ad accettare questa mancanza di longevità proprio perché possiamo acquistare un nuovo articolo a basso costo.
La nostra è diventata una società “usa e getta”
Ciò non è sano né per noi, né per la natura o per il mondo stesso della moda. La fast fashion padroneggia l’arte di sfruttare i nostri impulsi, trasformando la gioia dello shopping in una ricerca incessante della prossima “grande novità” o “dell’occasione imperdibile”. I consumatori spesso sperimentano una regressione psicologica che li porta a fare acquisti ricreativi per alleviare la noia o lo stress, creando uno squilibrio tra le loro preoccupazioni per l’ambiente e l’acquisto di moda sostenibile.
“Oggi, acquistare un vestito è come comprare un Big Mac: economico, veloce e, considerando la poca qualità, non molto salutare.”
La cultura del consumismo si amplifica attraverso i social media, con flussi infiniti di nuovi articoli da guardare e desiderare, creando qualcosa di simile a una dipendenza. Acquistare vestiti, soprattutto a prezzi scontati gratifica, e acquistare fast fashion consente di farlo in volumi maggiori e con maggiore frequenza.
Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, acquistiamo in media 14 capi di abbigliamento ogni anno. E questa è una media globale. Possiamo legittimamente pensare che i numeri siano molto più elevati per chi vive in Europa o negli Stati Uniti rispetto a chi vive in Africa o in India, ad esempio. Il numero di indumenti prodotti ogni anno è raddoppiato dal 2000 fino a raggiungere i 100 miliardi, e si avvia a triplicare entro il 2050. Allo stesso tempo, il numero di volte in cui un capo viene indossato è diminuito di quasi il 40%. Tre capi di abbigliamento fast fashion su cinque finiscono nelle discariche.
La fast fashion distorce il senso del valore.
La cosa migliore che possiamo fare per il pianeta è consumare meno e riutilizzare di più.
Una sorta di minimalismo, un concetto che elimina il superfluo per dare spazio a ciò che aggiunge valore al nostro stile e alla nostra vita.
Il minimalismo quindi non riguarda solo la riduzione del numero di articoli che possediamo. Riguarda l’apprezzamento di ogni pezzo e l’affermazione che abbia un posto significativo nelle nostre vite.
Psicologicamente, nel prezzo basso è implicito il basso valore dell’articolo. Se è fatto male o si consuma rapidamente, non ci preoccupiamo proprio perché è proporzionale al costo.
Ciò che dobbiamo rivalutare invece è di investire in capi di alta qualità che possono essere indossati per anni, per sfruttare al meglio le risorse (anche umane) utilizzate per produrli.
Nel dibattito generale, alcuni sostengono che sia solo responsabilità degli individui, prendere decisioni di acquisto informate ed etiche e che, scegliere di supportare marchi di moda sostenibile, sia un modo per promuovere migliori pratiche di lavoro e ridurre i danni ambientali. Mentre altri sostengono che il fast fashion sia semplicemente un sintomo di un problema sistemico più ampio come la globalizzazione, il capitalismo e il consumismo.
E’ vero che il cambiamento inizia con azioni individuali, ma non è solo responsabilità del singolo aggiustare il sistema della moda in rovina o annullare decenni di iniquità e degrado ambientale causati dall’industria. Ci vuole uno sforzo collettivo di tutte le parti del sistema per apportare un cambiamento significativo.
Gli individui devono avere una coscienza critica delle conseguenze del loro comportamento di consumo e delle strategie delle aziende e i governi e altre entità devono facilitare un contesto che favorisca modelli di business più etici e sostenibili.
Principi del consumatore responsabile.
Il “consumatore sostenibile” è colui che, nel suo modo di approcciarsi alla moda (o a qualsiasi prodotto o servizio), cerca di rispettare il maggior numero possibile dei seguenti presupposti:
-Acquistare prodotti di buona qualità.
-Informarsi sulla loro origine e fabbricazione.
-Selezionare gli acquisti.
-Rispettare l’ambiente (riciclaggio, agricoltura biologica…).
-Segnalare cattive pratiche commerciali che causano povertà e inquinamento.
-Sostenere le piccole imprese locali.
E tu, conosci il tuo impatto della moda sull’ambiente?
Fai il test qui sotto per verificare quanto le tue abitudini siano in linea con la tua preoccupazione per il pianeta (umani compresi).
Cris…VeryCris
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2 Commenti
Molto interessante questo articolo. Il Test finale consente di avere un po’ di consapevolezza in più rispetto alle proprie abitudini di acquisto. Grazie
Grazie a te G., era proprio lo scopo dell’articolo.
A presto, seguimi e condividi.
Cris